Piacenza, l’asilo dai 3 ai 90 anni dove anziani e bimbi si prendono per mano

Si chiama educazione intergenerazionale: nella stessa struttura si incontrano e giocano insieme piccoli e vecchi, tra favole e lezioni di cucina. “Esperimento riuscito”

PIACENZA. Alcuni hanno quasi un secolo, altri soltanto tre anni. Sono l’inizio e l’autunno della vita. A Piacenza c’è un asilo dove gli estremi si incontrano e vecchi e bambini “crescono” insieme. Dove la lentezza è un dono. C’è Fiorella che ha 87 anni e Stefano e Carlo che vanno al nido. Lei spinge il deambulatore e loro la precedono. “Guardate – ride Fiorella – ho tanti cavalieri, non sembro una regina?”. Poi tutti a sporcarsi di farina e a impastare torte. Divertendosi non poco. Mano nella mano. Perché i più anziani e i più piccoli hanno lo stesso passo, si sa, e basta uno sguardo per essere complici e diventare amici.

Aurora, 36 mesi, taglia pezzetti di mela e Maria, 90 anni, che è mamma, nonna e bisnonna e da giovane faceva la “bottonaia”, mescola farina e zucchero, mentre Franco, classe 1933, legge le fiabe a Noemi, e Olga, nata nel 1927, attenta e lucida, racconta di sé: “Io li ascolto i bambini sapete, ci gioco, gli narro le storie della mia infanzia, e loro sono attenti, mi guardano diritti diritti negli occhi. E se mi fermo, mi tirano per il braccio: Nonna Olga, poi che cosa fa il lupo?””.

Un asilo nella casa di riposo: il modello virtuoso di Piacenza

Si chiama “educazione intergenerazionale”, consiste nel far coabitare nella stessa struttura un asilo nido e un centro anziani, i piccolissimi e i grandi vecchi. “E poi creare delle occasioni di incontro, come la cucina, la pittura, la lettura, in cui le età si mescolino, le generazioni si fondano, partendo dalla constatazione che gli anziani e i bambini insieme stanno bene, e imparano gli uni dagli altri” spiega Elena Giagosti, coordinatrice del progetto che l’Unicoop di Piacenza sta sperimentando da alcuni anni. Una grande struttura moderna di vetro e acciaio, finestre luminose sul verde, spazi ampi e colorati che ospitano circa 80 anziani e un nido per 40 bambini dai tre mesi ai tre anni. Luoghi divisi naturalmente, ma con tante aree comuni.

A metà mattina c’è il laboratorio di cucina. Mele golden, lievito e granella di zucchero. Grandi e piccoli tagliano e impastano, sotto lo sguardo vigile delle educatrici. Carlo, tre anni, immerge il dito nel dolce: “Fiorella non ha fatto niente, ho fatto tutto io, sono un cuoco, e i nonni del nido sono buffi”, e ride contentissimo della sua battuta. Giacomo Scaramuzza ha 94 anni, è stato giornalista alla “Libertà” ed è tuttora attivissimo. “Quando sono venuto a vivere qui, non sapevo che ci fossero anche i bambini, per me che non ho avuto figli sono stati una scoperta incredibile, io partecipo a tutte le attività, con loro non c’è bisogno di parole, ci si capisce con gli sguardi, c’è uno scambio assolutamente naturale. Troppo spesso oggi le età non si incontrano, come se la vecchiaia fosse qualcosa da nascondere. Così, invece, è un po’ come passare il testimone…”. Un progetto per adesso unico in Italia ma già attivo in Francia e soprattutto a Seattle, alla “Providence Mount St Vincent”, la prima scuola materna inserita in un centro anziani, diventata famosa in tutto il mondo con il documentario “Present Perfect”.

Racconta una mamma: “Mia figlia è entusiasta degli anziani del nido. Se li incontriamo fuori li saluta, li riconosce, come fossero amici della sua età”. Perché a contatto con i “grandi vecchi” i piccoli imparano a non avere paura di rughe e disabilità, spiega Valentina Suzzani, responsabile pedagogica dell’asilo. “Così il deambulatore diventa un triciclo da spingere, la carrozzina del nonno una macchina sportiva, e se per gli anziani i piccoli sono una ventata di gioia, i bambini attingono alla saggezza e all’ironia di chi ormai non ha più fretta”. “Oggi siamo oggetto di tesi di laurea, ma quando abbiamo iniziato non sapevamo nulla né della Francia né di Seattle – dice Elena Giagosti – avevamo però alle spalle decenni di esperienza della Unicoop nella gestione sia di nidi che di anziani. E ogni volta che avveniva “l’incontro” ci rendevamo di quanto fosse prezioso per entrambi. Così abbiamo pensato di far “convivere” sotto uno stesso tetto le varie età della vita. Ed oggi è un successo”.

Franco Campolonghi è nato nel 1933, di anni ne ha 84, è il responsabile della biblioteca del nido e qui, al centro anziani, ha anche incontrato una nuova compagna. “I libri e i giornali sono stati sempre la mia più grande passione, da giovane divoravo Hemingway, e poi Piero Chiara, Fruttero e Lucentini. Così sapendo del mio amore per la lettura mi hanno chiesto se volevo occuparmi dei libri per il nido. E per me è stata una festa. Mi sono informato, ho cercato i testi giusti. Ogni giovedì i piccoli salgono qui con le educatrici e noi vecchi leggiamo loro le favole. Ci divertiamo un mondo, e vedessi quanto sono attenti. Se smetti ti tirano per la giacca. E alla fine vogliono sempre ricominciare da capo”.

Articolo originale: http://www.repubblica.it/cronaca/2017/02/19/news/se_un_vecchio_e_un_bambino_si_prendono_per_mano_ecco_l_asilo_dai_3_ai_90_anni-158655600/

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Un “libro sospeso” per i bimbi più bisognosi: l’iniziativa parte da Lecce

Sarà possibile acquistare i libri presso la libreria “Fanfaluche” di Lecce.

Un’iniziativa di soliedarità parte da Lecce. La libreria per bambini “Le Fanfaluche” di Lecce, in via Salvatore Grande 37, promuove per Natale l’iniziativa del “Libro Sospeso”.
Ispirandosi al famoso “caffè sospeso” di Napoli e al “pasticciotto sospeso” di Lecce, la libreria ha pensato a un modo di far arrivare un libro per Natale anche a chi non può permettersi questa spesa. 

Nasce così “Il libro sospeso” e l’invito, rivolto a chi può e vuole, di lasciare presso “Le Fanfaluche” un libro da far trovare sotto l’albero ai bambini delle famiglie bisognose. Così, chi vuole può scegliere e acquistare un libro, lasciandolo nella nostra libreria a disposizione di chiunque non può permettersi di comprarlo. 

Il cesto dei “libri in sospeso” è già pronto alle “Fanfaluche” e speriamo che ogni giorno si riempia un po’ di più, grazie alla generosità di tutti.

 

Articolo originale: http://www.leccesette.it/dettaglio.asp?id_dett=48985

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Catania, l’arcivescovo e l’imam fanno la spesa insieme per i poveri

Appuntamento al popolare supermercato a pochi metri dalla Plaja. Un abbraccio amichevole e poi via, a fare la spesa insieme con tanto di carrelli e mantellina da volontari. L’arcivescovo metropolita di Catania, Salvatore Gristina, e l’Imam della Moschea della Misericordia di Catania (la più grande dell’Isola), Kheit Abdelhafid,  hanno fatto incetta di cibi non deperibili, anche per neonati, da destinare ai più bisognosi. Insieme, per sconfiggere la povertà nel segno della fratellanza religiosa. “Sono particolarmente lieto  di essere insieme ai carissimi amici della comunità musulmana. – ha detto Gristina-  – Catania è davvero una bella realtà dove abbiamo organizzato tanti momenti in comune; questo è particolarmente significativo. Immaginiamo se tutti i credenti, cristiani o musulmani, prendessero questa strada? Cosa potrebbe accadere di grande?”. Per l’Imam Abdelhafid “questa è una delle tante iniziative di volontariato che stiamo facendo, insieme, nella nostra città per chi ha bisogno di aiuto. Questo è il dovere di tutti e basta anche poco per partecipare alla vita sociale”. Inoltre, una decina di giovani della Moschea hanno partecipato da volontari alla Colletta in un altro grande centro commerciale alle porte della città. “È stato un gesto di integrazione e aiuto per tutti; un modo eccellente per festeggiare i nostri 20 anni di attività”, ha detto il direttore dell’ Associazione Banco Alimentare Onlus con sede a Catania, Domenico Messina. Il Banco Alimentare della Sicilia onlus e il Banco Alimentare della Sicilia Occidentale aiutano 222.192 persone attraverso le 785 strutture caritative convenzionate. Di queste 17.070 sono bambini di 0-5 anni, 187.365 sono persone dai sei ai 65 anni, 17.757 gli over 65. Numeri che si traducono in persone che troppo spesso non hanno le risorse economiche per poter fare giornalmente la spesa e nutrirsi adeguatamente.

Articolo originale: http://palermo.repubblica.it/cronaca/2016/11/26/foto/catania_il_vescovo_e_l_imam_fanno_la_spesa_insieme_per_i_poveri-152890160/1/#1

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Nelle scuole danesi un’ora alla settimana si insegna l’empatia. Per avere adulti più felici

Si chiama “Klassens tid”: i bambini imparano ad ascoltare gli altri, a trattare i problemi da tutte le angolazioni ed a maturare un forte spirito di gruppo. Il tutto mentre mangiano una torta fatta con le loro mani

L’empatia è la capacità di immedesimarsi nello stato d’animo dell’altro, di “mettersi nei suoi panni”. E’ un’abilità cruciale tra le persone, soprattutto nei rapporti di lavoro e di coppia. Si dovrebbe imparare ad essere empatici da piccoli: alcuni, però, pensano che i bambini stiano perdendo questa capacità, con il risultato che saranno meno felici da adulti.

Più narcisismo, meno empatia

Uno studio dell’Università del Michigan svolto su circa 14 mila studenti universitari ha evidenziato come i ragazzi di oggi hanno circa il 40% di empatia in meno rispetto degli universitari degli anni ’80 e ’90, con un considerevole aumento di disturbi mentali e depressione. Alcuni credono che questo dipenda dal fatto che la società sia diventata molto più narcisistica di quanto non lo fosse 30 anni fa. Un esempio opposto viene dal nord, dalla terra con gli abitanti più felici del mondo, stando al “World happiness report 2016”. In Danimarca l’empatia viene insegnata nelle scuole obbligatoriamente un’ora alla settimana, dai 6 ai 16 anni. La chiamano “Klassens Tid” cioè “l’ora di classe”. 

Ascoltare gli altri mangiando una torta

Si svolge così: i bambini parlano tra di loro dei loro problemi individuali o di gruppo. Se qualcuno ha un problema che non riesce a risolvere da solo (pensiamo agli episodi di bullismo), quest’ora è il suo momento per raccogliere la solidarietà degli altri, farsi coraggio attraverso il loro ascolto e imparare giorno dopo giorno l’importanza del rispetto reciproco. Dopo aver ascoltato, i ragazzi trattano il problema sotto ogni angolazione e cercare di trovare una soluzione.

La creazione di un ambiente accogliente dove tutti si sentano a proprio agio è cruciale in quest’ora: solo così i bambini possono sentirsi liberi di esprimersi e anche liberi di pensare, per riuscire a vedere ogni cosa sotto la corretta luce. Durante la Klassens Tid i bambini mangiano una torta mentre ascoltano gli altri parlare, che hanno preparato loro stessi (qui la ricetta). Questo aumenta l’atmosfera di “famigliarità” nell’aula. L’ora di classe si svolge in Danimarca dal 1870 e negli anni ’90 è stata codificata nel curriculum nazionale. Non serve solo ai bambini ma anche agli insegnanti che, ascoltando i bisogni dei loro alunni riescono a creare un ambiente di apprendimento più inclusivo e accogliente.

L’empatia si insegna

Misurare quanto la “lezione di empatia” sarà effettiva da adulti è sicuramente difficile. Il fatto che i danesi siano tra i cittadini più felici al mondo è dovuto a molti fattori: alto reddito, società egualitaria, welfare eccellente tra sanità, istruzione e ammortizzatori sociali. Eppure in questo scenario la Klassens Tid continua a essere praticata: i cittadini danesi, dunque, non solo ne riconoscono l’importanza, ma pensano che l’empatia non sia affatto una caratteristica naturale con cui si nasce oppure no, ma piuttosto una competenza che può essere appresa e che deve essere insegnata. I bambini hanno bisogno di praticare l’empatia allo stesso modo di come si esercitano nella matematica o in uno sport.

Articolo originale: http://ischool.startupitalia.eu/education/56863-20160905-scuole-danesi-ora-empatia-felici

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Bologna esempio di integrazione sociale ed etnica

In un periodo in cui la paura del diverso e l’egoismo dettato dalla necessità crescono in ogni parte del mondo, la comunità bolognese sa fare la differenza. Ed in occasione dell’apertura della prima sede estera di Arte Migrante a Saragozza, in Spagna, Voci di Città intervista il coordinatore ed ideatore di questo gruppo.

 Arte Migrante diventa internazionale

BOLOGNA– «Crediamo nella condivisione come strumento per il riscatto sociale, nel rapporto umano come strumento di pace…l’arte è il cuore pulsante del nostro stare insieme.» Così il manifesto del gruppo risulta un perfetto spaccato del loro progetto che da Bologna si era già aperto ad altre nove città italiane, ma ora ha deciso di arrivare fino in Spagna a Saragozza ed il 10 aprile anche a Napoli.
Per approfondirlo e comprenderlo meglio ascoltiamo direttamente le parole di chi questa realtà l’ha voluta davvero e con forza. Tommaso Carturan, neolaureato in antropologia, ci accoglie all’interno delle sale dell’Antoniano per presentarci l’idea alla base della sempre più crescente e travolgente associazione informale.

Come spiegheresti Arte Migrante in poche parole?
«La nostra comunità è nata con l’intento di incontrarci attraverso l’arte. Nel 2012 insieme ad altri ragazzi con cui ho fatto volontariato in Africa ed alcuni senza dimora, abbiamo dato il via ad un gruppo informale che da allora, a cadenza settimanale, si incontra per coinvolgere persone che altrimenti nella realtà di tutti i gironi difficilmente si relazionerebbero.
Tentiamo di diminuire le distanza, togliere muri».

Come funzionano gli incontri che fate ogni mercoledì al centroZonarelli?
«Si tratta di veri e propri momenti di incontro e condivisione, liberi, gratuiti e senza bisogno di iscrizione per partecipare.
Accettiamo chiunque: italiani, stranieri, rifugiati, migranti, senza dimora, ragazzi, adulti, pensionati o lavoratori.
Durante la serata siamo semplicemente tutti allo stesso modo membri di Arte Migrante, artisti di Arte Migrante.
Gli incontri si strutturano in tre momenti: all’inizio ci sediamo tutti in cerchio per sottolineare la nostra uguaglianza e ci presentiamo, poi mangiamo ciò che ognuno di noi ha portato e ci prepariamo al momento conclusivo della serata in cui chi vuole, scrivendo su una lavagna, si prenota il proprio turno per esibirsi in una performance di danza, musica, teatro, poesia o semplicemente racconto.
Serve per conoscere culture musicali diverse, sensibilità differenti.»

Alle serate di Arte Migrante, però, avete aggiunto un altro importante progetto di laboratori diurni, me ne potresti parlare un po’?
«Si tratta dei Laboratori Migranti. Dal 2015, in collaborazione con Antoniano Onlus, abbiamo deciso di utilizzare alcuni loro spazi per organizzare 12 laboratori settimanali a libero accesso.
Non vogliamo preiscrizioni ne pagamenti, vogliamo solo che le persone riescano a far fruttare il loro tempo cercando di scoprire le proprie abilità nascoste, arrivando anche ad acquisire una maggiore autostima per affrontare più facilmente un percorso di autonomia.
Questi laboratori sono tenuti anche dagli stessi rifugiati, come nel caso del corso di informatica, perché abbiamo scoperto che molti arrivano in Italia con competenze che non sempre sono loro riconosciute.
Siamo circa in cinquanta a gestire questo progetto, quasi tutti volontari a parte alcuni ragazzi a cui viene dato un piccolo contributo per l’aiuto.

Facciamo lezioni di italiano per stranieri, inglese, curriculum, informatica o anche orto, danza, pittura ed hip hop. Il tutto con aiuto di traduttori nel caso in cui ci potessero essere difficoltà di comunicazione.»

In che modo riuscite a fare promozione con persone che hanno proprio difficoltà ad inserirsi nel contesto cittadino?
«Andiamo spesso a suonare direttamente in stazione dai senza dimora, oppure attraverso volantinaggio e mediante l’appoggio di altre associazioni. Insomma la realtà di Arte Migrante sta diventando sempre più grande e grandi sono gli obiettivi di relazione e di integrazione raggiunti. Con oltre cento persone a settimana che prendono parte ai loro incontri, saranno a breve una vera e propria associazione che “si ubriaca di umanità”.»

Articolo originale: http://www.vocidicitta.it/citta/bologna/bologna-esempio-di-integrazione-sociale-ed-etnica/

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“L’acqua sporca o salata può diventare potabile grazie a questo dispositivo”: un team di ingegneri americani svela un nuovo filtro

Purificare l’acqua sporca o salata e renderla potabile: è questa la “magia” di un nuovo filtro, messo a punto da un gruppo di ingegneri della Washington University in St. Louis(WUSTL). L’obiettivo dei ricercatori è ambizioso: rendere l’acqua, proveniente da qualsiasi luogo della Terra, bevibile senza rischi. La loro tecnica, che sfrutta la capacità di un materiale, il grafene, e l’energia solare, è a basso costo e potrà forse un giorno essere utilizzata in quei paesi in via di sviluppo in cui la mancanza di acqua potabile è ancora uno dei problemi più gravi.

Ma come funziona? Lo strumento è formato da due strati: il primo, in basso, composto da nanocellulosa pura, che, agendo come una spugna, spinge l’acqua verso l’alto. Il secondo strato è composto, invece, da ossido di grafite che assorbe la luce del sole e produce calore: l’acqua evapora, i batteri e gli agenti inquinanti vengono espulsi così come il sale. Il risultato è acqua pulita, condensata, che può essere utilizzata senza alcun tipo di rischio.

Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica “Advanced Materials”, promette di essere molto innovativo. “La nostra speranza – spiega Srikanth Singamaneni, professore di ingegneria meccanica e dei materiali alla WUSTL – è che questa tecnica potrà un giorno essere usata soprattutto in quelle zone povere in cui c’è molto sole, come l’India. Si potrà prendere l’acqua sporca, evaporarla tramite il nostro materiale e avere come risultato acqua pulita”.

Oltre a questo vantaggio, gli ingegneri ne mettono in evidenza un altro: i materiali impiegati costano poco, dunque la tecnica è facilmente riproducibile. “La cellulosa è facile da reperire – aggiunge Singamaneni – mentre il grafene non è molto costoso. Le persone potrebbero produrne tonnellate. Entrambi i materiali sono presenti in larga scala. Si può immaginare di creare immensi ‘fogli’ di questo tipo di filtro”.

Articolo originale: http://www.huffingtonpost.it/2016/08/01/acqua-sporca-salata-diventa-potabile-con-filtro_n_11293054.html

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Storia di Lamine, giovane richiedente asilo che insegna disegno ai bambini

Lamine Diatta, arrivato in Italia due anni fa dal Senegal, ha portato con sé la sua passione per la pittura e gli acquerelli: dopo una mostra di alcuni dei suoi lavori, oggi tiene un laboratorio organizzato dalla Manifattura Saltinbanco a Bologna

BOLOGNA – Insegnare è un’esperienza divertente, nuova e stimolante, per Lamine, trentunenne senegalese richiedente asilo che fino a pochi mesi fa non aveva mai pensato di potersi mettere alla prova con un compito simile. Tutto è nato dalla mostra “Carte postale”, allestita con i quadri del giovane lo scorso febbraio nella sede dell’associazione culturale Saltinbanco, in via della Battaglia 9 (e ora al bar Senza Nome, in via Belvedere). L’occasione era la presentazione del numero uno di “ZacRepublic!” (illustrata da Lamine), la rivista dei richiedenti asilo di Bologna promossa dalla cooperativa sociale Arca di Noè, che gestisce il Centro Zaccarelli, struttura bolognese di seconda accoglienza che ospita 54 persone, compreso il giovane senegalese.

In Saltinbanco hanno subito visto la sua propensione artistica come una preziosa risorsa, decidendo così di coinvolgerlo dei laboratori di disegno e pittura per bambini, affiancandolo a Nadia Velev, che nei mesi precedenti stava facendo lavorare i partecipanti sulla tecnica dell’acquerello e su soggetti animali. Il punto di partenza di ogni incontro sono stati spesso proprio i lavori del senegalese: i bambini li avevano visti durante la mostra, non sapendo però chi fosse l’autore; sapevano invece che lo avrebbero incontrato di lì a qualche settimana e questo, unito alla percezione che i quadri riproducessero un mondo lontano e sconosciuto, ha creato in loro un forte senso di attesa. Così, quando gli 8 giovani allievi hanno incontrato Lamine, lo hanno tempestato di domande. “I bambini prestano grande attenzione ai particolari, sono attenti e curiosi – racconta Lamine – . Vogliono sapere cosa rappresenta quel cerchio, per esempio, oppure perché ho scelto quel colore e non un altro. I miei disegni raccontano la natura dell’Africa, un posto che loro non hanno mai visto”.

La storia e il viaggio di Lamine cominciano in Senegal, sua terra natale: quando arriva in Italia, nel 2015, di chilometri sulle spalle ne ha già tanti, è stato a lungo in nord Africa, soprattutto in Libia e Algeria, facendo i lavori più disparati: alcuni richiedevano conoscenze e abilità manuali, come il calzolaio, altri erano molto più fisici e impegnativi. Tanta voglia di mettersi in gioco e di riscattarsi, e un amore radicato, profondo, per la natura, che Lamine ha iniziato a trasferire sul foglio bianco attraverso i suoi disegni e che lo ha portato fino al laboratorio della Manifattura Saltinbanco. Un momento di scambio e condivisione, una straordinaria occasione di crescita sia per Lamine, messo alla prova da questa esperienza inaspettata e appagante, sia per i bambini, che possono esplorare un pezzo di mondo attraverso la voce e l’espressione artistica di qualcuno che lo ha vissuto in prima persona.

Un percorso all’insegna della reciprocità. “Spesso – spiega Michele Cattani, operatore di Arca di Noè – si parla di tolleranza invece che di integrazione, o si intende quest’ultima come un processo unilaterale; ma l’integrazione dà i suoi frutti solo se coinvolge entrambe le parti in causa, se è un percorso fatto insieme”. Oggi Lamine ha un documento, lavora come magazziniere, parla bene l’italiano e ha ottenuto la licenza media. “Storie come la sua rispecchiano il modello d’accoglienza proposto dallo Zaccarelli e da Arca di Noè – conclude Cattani – il nostro obiettivo è la creazione di percorsi di inserimento lavorativo per persone svantaggiate, in questo caso dei richiedenti asilo. L’autonomia delle persone, però, non può prescindere dal rispetto delle loro propensioni e inclinazioni”.

Articolo originale: http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/533171/Storia-di-Lamine-giovane-richiedente-asilo-che-insegna-disegno-ai-bambini?stampa=s

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Senza braccia dipingo il mondo per dimostrare che l’impossibile non esiste

Mariusz Kędzierski è l’artista senza braccia che spinge il mondo a credere nell’impossibile: “Impossibile è solo una parola pronunciata da piccoli uomini che trovano più facile vivere nel mondo che gli è stato dato, piuttosto che cercare di cambiarlo. Impossibile non è un dato di fatto, è un’opinione. Impossibile non è una regola, è una sfida. Impossibile non è uguale per tutti. Impossibile non è per sempre”, così recitava Muhammad Ali. Questa frase sembra aver ispirato Mariusz Kędzierski, un 23enne nato senza braccia, che all’età di 3 anni ha imparato a disegnare. In questo video viene raccontata la storia di un giovane che ha sempre combattuto, anche quando, per motivi di salute, ha dovuto smettere di perseguire il suo grande sogno.

Articolo originale e video: http://www.huffingtonpost.it/2016/04/07/mariusz-kdzierski-artista_n_9632242.html?ncid=fcbklnkithpmg00000001

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“Fai qualcosa per niente”. Il progetto di questo 30enne ti restituirà fiducia verso il mondo

Le foto sulla pagina Instagram di Joshua Combes ripercorrono una campagna fatta di storie, incontri e positività

Quando il 30enne Joshua Combes visita una nuova città, il primo luogo in cui si reca non sono le attrazioni del posto. Porta con sé una valigetta con dentro tutto l’occorrente per esercitare il suo mestiere di barbiere, raggiunge le zone frequentate dai senzatetto – sui quali di rado si poggia lo sguardo distratto dei turisti – per fermarsi a chiacchierare con loro e, a chi è interessato, regala un taglio e una rasatura.

Due anni fa il barbiere londinese ha incominciato il suo viaggio per il mondo, ripercorso con immagini e racconti sulla sua pagina Instagram “Do Something for Nothing“, fai qualcosa per niente. La sua missione è quella di regalare barba e capelli agli homelessincontrati nei suoi viaggi, per riaccendere l’autostima e la positività e creare una rete solidale attraverso i social.

Finora, centinaia di improvvisati clienti si sono lasciati rimodellare da Joshua. Alcuni scatti mostrano il prima e il dopo, con sorrisi e abbracci che testimoniano un’unione nata dopo una breve, ma intensa conoscenza.

“È una questione di fiducia, si tratta di fidarsi del parrucchiere. Per qualche strana ragione i clienti ci raccontano tutto”, dice al Washington Post. Quella fiducia gli ha permesso di conoscere John, che lungo una strada di Filadelfia chiede ai passanti un sorriso per migliorare le sue giornate, Tom, un veterano che ha perso tutto e ora è costretto a chiedere l’elemosina, Sam, divorziato e dipendente dall’eroina, in cerca di una ragione che lo aiuti a smettere.

Gli invisibili, le vite ai bordi delle strade, diventano protagonisti di un progetto fatto di incontri, allo scopo di creare nuove connessioni umane. Un lavoro seguito da 59mila follower e ora parzialmente finanziato da aziende e Ong.

Articolo originale: http://www.huffingtonpost.it/2017/06/26/fai-qualcosa-per-niente-il-progetto-di-questo-30enne-ti-resti_a_23001854/

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La preside di New York che recluta gli studenti di Harlem per strada

Lisette Caesar è la fondatrice di una scuola a East Harlem dove 9 studenti su 10 vivono in estrema povertà. Da anni si batte per rendere l’istruzione accessibile a tutti.

NEW YORK – Avrebbe potuto aspettare l’arrivo delle iscrizioni dietro la scrivania, invece pur di riempire le classi ha deciso di adoperarsi in prima persona.

Così tutte le mattine, volantini in mano e passo spedito, la preside Lisette Caesar esce dalla Mosaic Preparatory Academy, la scuola elementare che ha fondato 9 anni fa nella zona Est di Harlem, cammina per il vicinato e cerca di reclutare nuovi studenti.

Il suo impegno ha incrementato molto le performance della scuola negli anni, un istituto in cui il 95 per cento degli studenti vive sotto il livello di povertà. La stessa Lisette è stata indicata come figura esemplare dal Dipartimento dell’Educazione di New York.

Nonostante questo, però, alla Mosaic Preparatory Academy ci sono ancora diversi banchi vuoti: la scuola può accogliere fino a 425 studenti e ad oggi gli iscritti sono solo 300.

“Dall’inizio dell’estate abbiamo reclutato 40 nuovi alunni”, sottolinea la preside. “Da qui a settembre conto che riusciremo a iscriverne altri 50”.

Ogni mattina Lisette va incontro a tutti coloro che le passano accanto. “Conoscete la Mosaic Preparatory Academy?” chiede d’un fiato mostrando uno dei 200 volantini che distribuisce giornalmente.

“Siamo una delle migliori scuole della zona”. Qualcuno si ferma, sorpreso, ascolta con attenzione, e uno o due giorni dopo torna per ultimare l’iscrizione del figlio.

Negli anni, racconta Lisette, la comunità della zona è cambiata, i prezzi degli affitti si sono alzati, molte famiglie sono state costrette a trasferirsi, così il numero degli studenti è progressivamente calato.

“Il mio intento è dare ai nuovi arrivati informazioni sulla scuola”, dice la preside. “Vorrei che iscrivessero qui i propri figli. La Mosaic Preparatory Academy è cresciuta molto in questi anni”.

Di recente la scuola ha ricevuto un premio per le buone pratiche nell’uso della tecnologia e il rendimento complessivo degli studenti ha raggiunto gli standard richiesti dal Dipartimento dell’Educazione di New York.

“Le scuole pubbliche ottengono finanziamenti sulla base del numero degli studenti”, aggiunge il vice preside Jorge Moore.

“Più studenti significano più risorse, più risorse consentono di offrire ai ragazzi maggiori opportunità e programmi migliori, è un circolo. In questo quartiere ci sono diverse charter schools, scuole pubbliche indipendenti che ricevono finanziamenti anche da organizzazioni facoltose e quindi hanno risorse ben maggiori delle nostre a disposizione. Dobbiamo competere con loro nel reclutamento degli studenti”.

Per trovare fondi necessari a garantire certi standard ai suoi studenti e alle loro famiglie, Lisette organizza eventi di raccolta fondi in casa propria, passa molto del suo tempo a compilare domande e stringere partnership con altri istituti e realtà locali.

In questo modo è riuscita a garantire ai ragazzi tutto il necessario per studiare, zaini compresi, e a tenere aperta la scuola per sei giorni a settimana, offrendo agli alunni l’opportunità di partecipare ad attività ricreative e ai loro genitori di prendere parte a corsi di formazione.

Grazie ai finanziamenti ricevuti la preside ha fatto sistemare il campo da basket e quello di calcetto, mentre le lezioni di musica sono offerte da volontari di un coro di Broadway.

Gli sforzi di Lisette non sono mansioni previste da contratto. “È il mio modo di intendere questo lavoro”, dice la preside. “Il mio obiettivo è garantire un’educazione completa agli alunni che frequentano questo istituto. Ognuno deve essere in grado di realizzare se stesso. Le condizioni esterne non devono essere un limite alle proprie possibilità”.

La sua vicenda personale in questo è esemplare. Nata e cresciuta a New York (a Brooklyn), la prima di tre figli cresciuti con una madre single, Lisette ha vissuto sotto la soglia della povertà ma è riuscita ugualmente a diplomarsi, a prendere una laurea e ora sta proseguendo il suo dottorato in Scienze della Formazione. “Ho avuto molto da questa comunità – dice – e sento il desiderio di restituire indietro quanto ho ricevuto”.

“Per Lisette la scuola non è un posto di lavoro, qui al Mosaic c’è una vera famiglia”, dice Jasmin Carasquillo, madre di due ragazzi iscritti alla Mosaic Preparatory Academy.

“Ammiro molto la sua dedizione, negli anni si è data molto da fare per garantire alti standard nell’educazione dei nostri figli. Ha fatto in modo che avessero accesso ad attività che noi genitori, come molti altri che abitano in questa zona, non potevamo permetterci per loro”.

Lisette Caesar è un caso isolato nel panorama del sistema scolastico pubblico di New York, anche se c’è chi crede che la sua vicenda personale rappresenti invece un trend in crescita inevitabile.

David Bloomfield, professore di sistemi educativi al Brooklyn College e alla City University of New York, sottolinea un crescente livello di competitività tra i professori nel sistema scolastico, sin dai primi livelli di istruzione. “Prima si sceglieva di mandare il figlio nella scuola più vicina alla propria abitazione”, spiega Bloomfield.

“Da qualche anno le cose sono cambiate. Lo School Choice Movement consente ai genitori di scegliere la scuola non solo in base allo stradario ma anche all’offerta scolastica e all’appeal del singolo istituto”.

Nel frattempo si sono moltiplicate le charter school, scuole che dispongono di buone risorse da dedicare alla formazione ma anche alla promozione.

“La mobilità degli studenti è quindi aumentata. Per questo, tra gli istituti, la ricerca di nuovi iscritti si è fatta più serrata e maggiore l’impegno profuso non solo volto a incrementare le performance scolastiche ma anche il numero effettivo degli studenti”, conclude Bloomfield.

Articolo originale: https://www.tpi.it/2016/08/18/preside-new-york-recluta-studenti-strada-harlem/#r

#keepcalmwehavegoodnews 🙂

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